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Lo vado ripetendo da un po’.
Sempre più ritengo che parte – minima magari o forse no - della crisi
dell’editoria italiana, dell’insostenibilità economica del fare cultura e
informazione, dell’inefficacia della promozione della lettura e dei saperi, e
finanche del disorientamento etico e politico di quella porzione di società che
ha cura di libri e età evolutiva, abbia
a che fare non solo, e non soltanto, con la crisi globale o con le
ragioni analizzabili di contesto. No, non solo. Parte di questa responsabilità
sta nella confusione di molti adulti (amateur e professionisti) intorno a
questi temi e questi tempi. Serve un po’ di studio e consapevolezza. Di certo –
saltate le categorie note – ci vuole un po’ di riposizionamento etico,
un’assunzione di responsabilità. Un minimo di coerenza. Sempre ammesso che si
voglia insistere su alcune questioni sbandierate di continuo. Già. Ecco a me
viene da sbottare – ancor prima che provare a ragionare – quando continuo a
sentire attribuzioni di valore a cose come: qualità delle proposte, sostenibilità
delle filiere territoriali e etiche (tipografie, carte, certificazioni),
importanza della rete di librerie indipendenti (posti lavoro e competenze),
importanza delle biblioteche pubbliche (civiche e scolastiche), valore della
media e piccola editoria indipendente (e in generale dell’imprenditoria
indipendente della filiera), valore delle riviste indipendenti, diritti dei
lavoratori della stampa tipografica, della cultura e dell’informazione, diritti
d’autore, impatto ambientale (ancora carte e certificazioni, ma anche lavoro e
trasporti), e – non ultima (anzi, dovrebbe essere summa e fine) – capacità di
educare e educarsi a scelte critiche e autonome. Perché sbotto? Perché io tifo
e credo in queste cose. E sembrerebbe di essere in ottima compagnia, almeno a
girare per l’Italia. Poi però scovi quelle stesse persone immerse in filiere di un mondo al contrario
(rispetto almeno al senso e alle dichiarazioni di senso appena esposte). Una
filiera che funziona più o meno così: one-man-band nascosti dietro a pavidi
disclaimer (“… in ottemperanza alla legge n.62 del 7/3/2001… bla… bla…) e
zuccherosi ammiccamenti contenutistici (sempre più strutturati con “rubriche” e
“collaboratori”, giocando a fare i giornali, intanto pure quelli ormai non
pagano) linkano, dietro contentino percentuale, ai maggiori siti di e-commerce
per farti comprare scontato, come altrove non troveresti, il tal libro stampato dall’altra parte del mondo, abbattendo foreste e
diritti, e che dall’altra parte del mondo arriva
attraversando oceani su navi da oltre 10000 TEU (e conseguente gasolio). Per carità la progettazione è italiana, affidata a editor precari visto che la filiera non si regge. Et
voilà in un sol colpo via tipografi, librai, bibliotecari, editori coraggiosi,
editor, autori, critici, alberi e pesci. Ecco io sbotto se anche solo un pezzo di
questa filiera al contrario è composto da chi poi vanta l’utilizzo di cibi bio
a km 0, capi di vestiario in fibre naturali del commercio equo e l’uso della
bici per il trasporto urbano. Basta intendersi. Non sto parlando di chi in modo
genuino punta sulla modernità convinto dell’opportunità di saltare passaggi
ovvero del mondo delle autoproduzioni per capirci (che è peraltro diverso da
quello del selfpublishing, le parole sono importanti e contengono semantica
politica). Quelli hanno tutta la mia stima. No, parlo dei confusi, forse
inconsapevoli, ma per certo nocivi
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