martedì 29 dicembre 2015
domenica 15 novembre 2015
Paris
Un capodanno a Parigi. Notte tra il 1996 e il 1997, lungo la Senna si era abbondantemente sotto lo zero, la città ghiacciata la festeggiammo poco, preferimmo rifugiarci in un locale alla Bastiglia al quale eravamo affezionati, tutti trovammo caldo e qualcuno l'amore di una sera. Di quei giorni ricordo la nostra amicizia in una città in agitazione, per l'emergenza clochard - bisognava trovare modo che non assiderassero - e per la striscia di attentati che dall'estate 1995 scuoteva la Francia. L'ultimo poche settimane prima della nostra partenza: "Due morti, ventotto feriti gravi e una cinquantina di feriti leggeri è il primo bilancio di un'esplosione criminale che s'è prodotta, poco dopo le sei del pomeriggio, all'interno di un convoglio in sosta nella stazione di Port-Royal, non lontano da Montparnasse", scriveva il Corriere della Sera il 4 dicembre 1996. Le stazioni della Metro presidiate da uomini dell'Armée, i cestini della nettezza urbana sigillati per evitare che vi fossero depositati ordigni esplosivi. Questo ricordo. Oltre alle visite ai centri per SDF, agli improbabili cappottoni rimediati al mercato di Barbès e alle serate a zonzo per l'XIe. Non era la prima volta a Parigi e molte altre sono seguite, per piacere e per lavoro. Anche con tempi più lunghi e più significativi. Eppure l'altra sera, davanti a France 24, di fronte all'orrore del 13 novembre 2015, in quella che doveva essere la giornata mondiale della gentilezza ed è diventata una nuova notte di barbarie mi è tornato in mente quel Capodanno. Monique e il Mégalo, il bar dove facemmo tana. Ho pensato o forse ho avuto solo la scossa irrazionale di un brivido prolungato; ho sentito il chiasso della festa farsi rumore di terrore; ho immaginato palpabile l'inattesa improvvisa discesa nella paura, la morte che entra a caso nei destini altrimenti sognati di donne e uomini usciti una sera per ballare, bere, festeggiare la vita, in un qualsiasi venerdì, senza neppure la scusa del Capodanno.
venerdì 30 ottobre 2015
Beatrice Solinas Donghi, maestra di fiabe
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Beatrice Solinas Donghi, maestra di fiabe", questa dedica a stampa apre
l'edizione delle favole di Martin Piaggio (1774-1843) - tratte dall'Esopo zeneize e raccolte nel volume O ratto inta formaggia e o gatto. Dodici
favole genovesi (Il Golfo, 2011) - che curai ormai qualche anno fa. Volli
dedicare quel lavoro di recupero della favolistica ligure a Beatrice Solinas
Donghi come omaggio di amicizia e come segno di gratitudine. I suoi scritti,
non solo quelli narrativi, avevano, infatti, accompagnato i miei interessi intorno
alla fiaba, alla letteratura e ai repertori orali della tradizione destinati
all'infanzia fin da principio, da molto prima di avere il piacere e l'onore di conoscerla personalmente. I suoi A rionda di cuculli, filastrocche genovesi e
liguri (con Renzo Monteverde; Sagep, 1967), Fiabe a Genova (Sagep, 1972) e i due volumi distinti e indipendenti di Fiabe figuri (Sagep, 1980 e Mondadori,
1982; quest'ultimo con Pino Boero) hanno rappresentato e continuano a
rappresentare per me libri ai quali tornare e tornare. Le mie ricerche sul
folklore infantile e sull'immaginario popolare della Liguria, poi
sistematizzate nelle due raccolte Pupun
de pessa. Ninna nanne e orazioni per la buona notte nella tradizione ligure
(Il Golfo, 2005) e Barban, bibòu e föe. Dizionario
delle creature fantastiche della Liguria (Il Golfo, 2010), sono debitrici in
massima parte proprio al lavoro di appassionata indagine di Solinas Donghi.
Così come, quelli stessi volumi, furono modello e fonte imprescindibile per il
mio Fiabe liguri illustrate (Falco,
2007), riscritture alle quali l'autrice volle donare, grazie anche
all'interessamento dell'artista Fiammetta Capitelli (autrice delle illustrazioni
di quel volume), un'introduzione preziosa. Fu allora che, dopo più antiche
occasioni formali e pubbliche (non ultima la cerimonia di assegnazione di un
Premio Andersen alla carriera a Sestri Levante nel 2003), potei incontrarla
nella bella casa genovese dove viveva e scriveva. Parlammo in quella e in
successive occasioni di fiabe e letteratura; di quegli incontri ricordo con
viva emozione, oltre la coinvolgente passione letteraria e il garbo
dell'ospitalità, l'essere inaspettatamente introdotto nel suo studio di
scrittrice. Una stanza ordinatissima e sobria, eppure ricca e adorna dei molti
riconoscimenti e degli amati volumi. Nella stanza, protagonista assoluto,
ben illuminato dalla finestra, il tavolo di lavoro. Ampio la giusta misura,
quella per ospitare solo l'essenziale: gli strumenti di scrittura. Non è questa
la sede dell'approfondimento critico o del riconoscimento del palese ovvero
dell'importanza che Beatrice Solinas Donghi ha nella storia letteraria. Non
solo per l'infanzia, non solo regionale; basti ricordare il Premio Campiello come finalista
nel 1965 o l'inclusione nell'antologia del racconto italiano del Novecento
uscita nei Meridiani nel 2001. Non è questo lo spazio per ricordarne l'ampia
bibliografia o la formazione e gli interessi. Questo è lo spazio del ricordo
personale, affettuoso e grato. Della fortuna di aver incontrato, oltre il percorso
letterario, la persona. Nei primissimi anni di questo secolo - tra l'essere da
tempo suo lettore e i dialoghi più recenti intorno alla fiaba ligure -
sperimentai il garbo colto di Solinas Donghi. Forse fu così che conobbi la
persona oltre l'autrice. A seguito di una recensione a un suo libro mi
mandò una lettera di ringraziamento, una lettera vera: scritta a mano,
argomentata, senza formalismi, inviata per posta. Parole grate e sagge, senza
nessuna delle vanità che talvolta segnano gli autori, anche dei minori. L'essersi
presa la briga di scrivere, lei apprezzatissima decana, ad un allora giovane
sconosciuto recensore che aveva l'unico merito di aver letto per davvero la sua
opera fu per me la prova ulteriore della grandezza dell'autrice. Mi colpì. E ci
scrivemmo in quel modo, con la misura e la parsimonia dei liguri. Quando ne
ebbi l'occasione le portai la mia copia, ormai sdrucita, del suo Fiabe liguri (quello uscito per
Mondadori nel 1982) per farmelo autografare; a conferma delle garbate lettere e
in anticipo sull'amichevole accoglienza che volle poi riservarmi negli anni
successivi vergò "Ad Anselmo Roveda, mio critico benevolo, con
gratitudine". In questi giorni, dopo la sua scomparsa, sono andato a
rileggere quella dedica più volte, a cercare nella grafia il gesto della mano.
La gratitudine è mia. E, posso dirlo, sono un critico non solo benevolo, ma anche
ostinatamente appassionato dell'opera di Beatrice Solinas Donghi.
giovedì 22 ottobre 2015
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