Ovvero appunti su coerenza narrativa e traduzione
Drax il Distruttore dei "Guardiani della Galassia" (2014), il film, è diverso dal Drax dei fumetti Marvel dai quali trae origine la versione cinematografica. Poco male. Il personaggio, forte più di un toro e ingenuo come un vombato, è divertente. Anche per come usa e interpreta la lingua e il non verbale.
Da poco entrato in scena [non anticipo e rovino finale, insomma non spoilero, puoi continuare a leggere tranquillamente] lo troviamo in carcere alle prese con il tentativo di esecuzione sommaria di Gamora, la verde figlia adottiva di Thanos al momento "prestata" a Ronan (il cattivo della storia). Drax vuole farla fuori per vendetta, Ronan ha sterminato la sua famiglia. Gamora dapprima riesce a liberarsi, quindi spiega che in realtà non è al servizio né di Thanos che ha distrutto il suo mondo di origine quando era bambina né tantomeno del criminale Ronan. Drax non se ne fa convinto e, afferrandola per la gola, la inchioda al muro, dicendo «Donna, le tue parole sono aria per me!»
A cavare d'impaccio la fanciulla entra in scena Quill, lo scanzonato terrestre protagonista. Ne segue uno scambio esilarante tra Quill e Drax; scambio utile - nell'economia del film 'per famiglie e per tutti' - ad allentare la tensione e ad allontanare attenzione da interpretazioni cruente della scena. La gag ha un piccolo picco quando Quill, per rassicurare il Distruttore sul fatto che ci sarà tempo anche per la vendetta, si porta un dito alla gola e lo muove di traverso a simulare sgozzamento. Drax resta interdetto, sguardo vacuo, e chiede perché mai dovrebbe portarsi un dito alla gola. Quill, scorato, gli spiega che è un gesto simbolico, chiede conferma agli astanti. Gli altri annuiscono. Drax no. Non capisce ancora, non sembra convinto.
E lo spettatore neppure (sì, il gesto del mozzateste sì, però c'è qualcos'altro che non funziona); la scena è gustosa eppure c'è qualcosa che stona.
Il perché Drax non sembra convinto dalla spiegazione di Quill e pure le ragioni di ciò che stona allo spettatore si paleseranno da lì a breve, tempo qualche minuto, quando i futuri guardiani saranno in procinto di evadere grazie al piano di Rocket Raccoon, lo spassoso procione vittima dell'ingegneria genetica.
Durante il tentativo di fuga Drax dice qualcosa con linguaggio desueto e forbito, Quill allora domanda scherzoso una roba tipo "hai ingoiato un dizionario dei sinonimi?"; Drax non comprende ancora, piccato e minaccioso si rivolge a Quill intimandogli di non chiamarlo mai più "dizionario dei sinonimi". A pacificare gli animi - e a svelare la questione allo spettatore - interviene Rocket spiegando che il popolo di Drax non conosce le metafore, si basa solo sul letterale esplicito.
Una buona idea narrativa, un ottimo modo per infilare piccoli fraintendimenti in commedia. Ma ecco che allo spettatore diventa chiaro ciò che stona in quel passaggio in cui Drax prima appende Gamora alla parete e poi non intende la gestualità di Quill. La frase «Donna, le tue parole sono aria per me». Drax non può dirla, non può neanche pensarla. E allora mi è venuta voglia di andare a guardare in inglese, nel dialogo originale. Anche lì, già lì, c'era questa ingenuità, certo piccola, per carità, ma capace comunque di minare la coerenza narrativa e la costruzione di un personaggio? No, non c'era. Drax dice, coerentemente con gli usi linguistici attribuiti al suo popolo, «Woman, your words mean nothing to me!» ovvero «Donna, le tue parole non significano niente per me!»
Forse la traduzione infelice - e non perché libera o infedele, ma per le ragioni, viste, di coerenza con un assunto narrativo poi reiterato (Drax non usa e non comprende le metafore) - potrebbe essere dovuta a ragioni di sincrono. Peccato, comunque. Mai scordarsi coerenza narrativa, il fruitore di narrazioni (pure, e a maggior ragione, il lettore) ci rimane male.
[Ah, poi il film va a finire che...]
venerdì 24 luglio 2015
giovedì 23 luglio 2015
Genova e il Museo Luzzati
Genova, a volte,
tersa e fosca,
operaia e aristocratica,
di lotta e di assenza,
di fracassi e di silenzi,
dolorosa e necessaria.
Così della mia città scrivevo sul finire della scorsa primavera. Genova è per me, da tempo, casa. Rifugio. Partenza e arrivo di un peregrinare continuo, dopo anni stanziali. Ho imparato ad amarla stando nel lontano relativo del viaggio. Un amore a elastico, privilegiato come ogni amore a elastico. Ne conosco le magagne, che detesto e a cui non mi affeziono. Ne so a fondo il brutto e una certa staticità impermeabile, l'autoreferenzialità figlia del timore più che della presunzione. Me ne cruccio solo con chi già la ama del mio stesso sentimento. Con gli altri no. Neppure qui. Perché le magagne valgono meno del resto, della Genova ripida a sbalzo sull'apertura del mare, orizzonte di passaggi. Così penso, così mi piace pensare. Certe volte però l'assenza e i silenzi la fanno fosca punto, solo fosca. Senza poesia sufficiente. Il rischio, concretissimo, che la città perda il Museo Luzzati è una di quelle occasioni. Chi era Luzzati, cos'è il Museo e cosa il patrimonio/matrimonio dei due - l'opera dell'artista e l'illustrazione tutta - rappresenti (potrebbe e dovrebbe rappresentare) per il presente e per il futuro di una città a vocazione turistica e culturale lo sapete o lo potrete scoprire senza difficoltà (anche qui). Qual è la situazione attuale, il rischio chiusura, potete leggerlo qui. Cosa potete fare? Procuravi la maglietta #savethemuseum (qui) o fare una donazione contattando il museo (qui).
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