martedì 21 marzo 2017

Tra poesia e letteratura per l'infanzia (in omaggio a Silvia)



Le cinéma de l'équilibre, ill. per FilmMaker's Magazine © Silvia Santirosi

 
«Quando le donne lavano le mutande, è un lavoro domestico./ Quando lo fanno gli uomini, un avvincente cruccio./ Come s’affliggono, quei calzini umidi che sbattono sul filo,/ come sono sperduti e soli nell’aria che li fa orfani … », questi versi, canzonatori e graffianti, di Margaret Atwood sono stati, insieme ad altri più centrati sulla memoria e sulla percezione d’infanzia, una piccola rivelazione. Il rinfocolarsi di una traccia di ricerca. Questo articolo sulle autrici che praticano i linguaggi della poesia (non per bambini) e della letteratura per l'infanzia, infatti, stava nascendo, dopo anni di latenza e in altra forma, a inizio 2014 per fortuite circostanze affastellatesi nel corso di qualche settimana: il ritrovamento di un volume della Atwood che disperavo di recuperare; l’arrivo in Italia di María Teresa Andruetto; la neve sulle montagne che riportava alla memoria poesie di Giusi Quarenghi; l’uscita di una raccolta di Ornella Pozzolo; il rimettere mano a traduzioni da Sophia de Mello Breyner Andresen. Tutte autrici che hanno pubblicato poesie per adulti e libri per bambini. Gli accadimenti fortuiti e gli appunti disordinati hanno trovato l’urgenza di una prima sistematizzazione per un evento tragico: la morte di Silvia Santirosi (1981-2014), collaboratrice della nostra rivista e autrice, anch’essa tesa tra poesia e letteratura per l'infanzia. La ricognizione preliminare intorno a questo tema è dunque dedicata a lei. Un omaggio al suo scrivere; che aveva una peculiarità comune ad altre autrici: scrivere poesia per adulti senza scordare la dimensione dell’infanzia e scrivere per bambini senza fare a meno del bagaglio lieve vivo e scabro della poesia. «E la morte/ mi piace pensare/ ci stupisce bambini/ con le dita nella marmellata ai lampioni/ mi piace pensare/ accesi fino all’alba/ in una strada di periferia», scriveva Silvia in Istantanee (EdiLet, 2008). La Atwood, del resto, nella poesia “Bambina triste” - compresa nella raccolta citata in apertura, Mattino nella casa bruciata (Le Lettere, 2007) - ben tratteggia infanzia: «Be’, tutti i bambini sono tristi/ ma a qualcuno poi gli passa».
Circoscrivendo il campo alle sole autrici che utilizzino i due differenti linguaggi in modo distinto, restano fuori dal nostro ragionare scrittici di poesia per l'infanzia come Chiara Carminati e, ça va sans dire, gli uomini, penso a Pierre Hornain e a tre Roberto: Denti, Mussapi, Piumini.
Margaret Atwood, forse la massima esponente di lingua inglese della letteratura canadese, arriva alla scrittura per bambini solo più tardi, rispetto ai propri originari interessi letterari. Lo fa nel 1978 con Up in the Tree (in italiano: Quassù sull’albero, Giralangolo, 2011) dopo una decina di raccolte poetiche (debutto nel 1961) e tre romanzi per adulti, forme espressive mai abbandonate e andate di pari passo con le più rare opere per l'infanzia. La scrittrice canadese bene rappresenta quell’ideale di “autore totale”, capace cioè di cimentarsi con le varissime forme dell'espressione letteraria, del quale diceva Andruetto nell’intervista pubblicata qui ad aprile; in questo senso varrà la pena ricordare che Atwood ha ricevuto per un proprio romanzo (The Handmaid's Tale, 1985; in italiano: Il racconto dell'ancella, Mondadori, 1988) diversi riconoscimenti nell’ambito, apparentemente distantissimo, della fantascienza, compreso il prestigioso premio Arthur C. Clarke nel 1987. Ma torniamo alla poesia.
Analogo discorso, ovvero autrici arrivate al libro per bambini solo dopo consolidati percorsi in poesia, si può fare per Sophia de Mello Breyner Andresen (1919-2004); l’amata poetessa portoghese ha infatti regalato anche alcuni classici della letteratura lusitana per ragazzi, concentrati però e per lo più in unico decennio, a partire dal 1958. O per la nostra Vivian Lamarque, apprezzata poetessa che al debutto, nel 1981 con Teresino, meritò il Premio Viareggio. Poi è arrivata, venti anni dopo, anche la scrittura per l’infanzia con esiti felici. Da allora le due vesti letterarie sono andate affiancandosi nutrendosi, forse, a vicenda. A lei è dedicato un prezioso, per pregnanza, Oscar Mondadori: Poesie. 1972-2002. In Lamarque memoria e percezione d’infanzia, pure nella faticosa ricostruzione dell'età adulta e nell’alternanza dei ruoli filiale e genitoriale, sono sovente momento dominante della scrittura poetica: «A tavola/ per non parlare da sola/ ha parlato con le sue posate/ per tutta l’infanzia/ per tutta l’adolescenza/ con la signora Forchetta/ e suo marito il Coltello/per tutti i pranzi/e tutte le cene/ poi è diventata grande/ non ha più parlato all’acciaio inossidabile/ quasi più è tornata nel cassetto/ dei feroci bambini cucchiaini».
O ancora per un’altra italiana: Geraldina Colotti. L’autrice, a lungo incarcerata, ha all’attivo principalmente raccolte di poesie - ho personale predilezione per Sparge rosas (Manni, 2000), aperta dalla sarcastica “Traduzione”: «Sono un poeta/ in traduzione/ mi traducono/ in furgone» - ma con una delle rare incursioni nella letteratura giovanile ha offerto un romanzo bello e scomodo, Il segreto (Mondadori, 2003), troppo presto finito fuori catalogo (ora ripubblicato da Robin edizioni, 2012).
Infine ci sono le scrittici amate per le loro opere per l’infanzia che hanno poi svelato un côté schiettamente poetico. Penso alla già citata Andruetto, la cui opera poetica è pressoché inedita in Italia. Penso a Ornella Pozzolo che dopo alcune riuscite scritture per bambini - ricordo Anna senza confini (Arka, 2002) e Voglio essere una bambina delle fiabe (Salani, 2003) - ha recentemente debuttato in poesia con la raccolta Falene erotiche (ExCogita, 2013): «Non rattristarti, amore/ se ogni tanto/ io non canto con te/ la stessa canzone». Penso innanzitutto a una delle migliori autrici italiane per l’infanzia: Giusi Quarenghi. Oltre a opere per giovani lettori, pure con alcune prove poetiche dedicate (si veda E sulle case il cielo, Topipittori, 2007) l’autrice ha pubblicato nel corso degli anni stordenti e commoventi raccolte di poesia: Ho incontrato l'inverno (Campanotto, 1999), Nota di passaggio (Book, 2001), Tiramore (Marsilio, 2006). Così a pagina 49 di Tiramore: «Imparo la notte a memoria/ nelle stanze di te che non torni/ poche righe per volta e daccapo/ perché l'aggiunta non/ perda quello che s'era fissato/ Leggo e rileggo/ il suo bianco spartito/ Di tempi silenti di tutti/ rubati».


Questo articolo di Anselmo Roveda è stato pubblicato con il titolo Ad accostar poesia. Scrivere poesia e scrivere per l’infanzia: dalla canadese Margaret Atwood alla nostre Vivian Lamarque e Giusi Quarenghi. Una prima ricognizione sulla pratica di diversi linguaggi letterari in omaggio a Silvia Santirosi sulla rivista "Andersen" [andersen.it]; n. 321, maggio 2014.

Era accompgnato dal box:

Silvia Santirosi (1981-2014)

«Sono una donna/ a futuro indeterminato» con queste parole si apre Istantanee (EdiLet, 2008), la raccolta poetica pubblicata da Silvia. Me la promise a Montreuil 2009, me la donò a Bologna 2010. Iniziò a collaborare con “Andersen” nel 2009; si presentò allo stand della rivista, pochi mesi dopo era già in squadra con una collaborazione presto cresciuta nell'intensità e nelle uscite. Un'occasione bella, per noi - sempre propositiva, facilità di scrittura e analisi - e per lei - accreditarsi in un mondo non semplice. La voglia di inseguire i sogni l'ha poi portata a Parigi e le capacità, unite a determinazione dolce, l'hanno condotta, in breve tempo, a significativi risultati. Col trasferimento a Parigi, più difficile coinvolgerla nelle recensioni, la collaborazione diradò; ma continuavamo a sentirci, pure nei momenti di silenzio. La letteratura, illustrata e per l'infanzia, era la sua passione; alla quale si dedicava come giornalista, illustratrice e scrittrice. Dopo le iniziali collaborazione con “Le Conquiste del Lavoro”e “Il Mattino”, sono arrivate quelle con “Andersen” e “l'Unità” quindi con “L'Espresso” e il francese “dBd Magazine”; sul versante dell'illustrazione - le sue tavole corredano l'articolo - ha collaborato con riviste (“FilmMaker's Magazine”, “Loop”), partecipato a un paio di collettive e realizzato un'elegante copertina editoriale; come autrice ha pubblicato, oltre alle poesie su citate, due libri per bambini - Capitan Barbabrizzola (Anicia, 2012) e Il treno (OQO, 2012) - e almeno altri due sono, erano già, in preparazione per Kite, titoli provvisori Chi sono e Dov’ero quando non c’ero. Li aspettiamo; così che le parole, come dicevi e speravi, possano tenere un po' di compagnia. (a.r.)

giovedì 9 marzo 2017

Il volto e lo stigma




Il volto è l'unica parte di sé, del proprio corpo, che in questa porzione di mondo non si può celare, nascondere, camuffare o dissimulare tra tessuti. Nascondere il viso - con maschere vere e proprie o semplici foulard e caschi, poco importa - richiama immediatamente il disordine, il caos, la sovversione; tanto da essere colto come un chiaro segno di cattive intenzioni e di travisamento utile a tenersi fuori dal controllo sociale: così nei baccanali degli antichi e nei cortei carnascialeschi dei folli; così negli assalti alla diligenza dei banditi western, fazzoletto sul volto, o in quelli alle banche, maschere in lattice sulla faccia, celebrati anche dal cinema; così nelle manifestazioni politiche più violente degli anni '70 o nelle più recenti azioni, di varia ma comune natura antisociale, dei casseurs, delle bandillas o dei black bloc. Il volto non si nasconde, e farlo è considerato reato; in Italia in virtù dell'articolo 5, legge n. 152 del 22 maggio 1975 (“È vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”) si rischia da uno a due anni di carcere e fino a duemila euro di ammenda. Le ansie da terrorismo internazionale degli ultimi tempi hanno riacceso il dibattito e consigliato in certi ambienti addirittura maggior severità; per contro la presenza di nuove sensibilità culturali e religiose, con l'aumento delle comunità di religione islamica dove il velo femminile è prescritto e atteso, ha indotto a interpretazioni più rispettose delle scelte di ciascuno. Certo, non senza strascichi polemici. Fatto sta che il volto non si nasconde e farlo è perlomeno indice di sospetto. Il viso va esibito (e non da ora, tempo di selfie and white teeth), ché rappresenta un elemento decisivo per la riuscita sociale: “mascella volitiva”, “occhi belli” (e varianti), “volto rassicurante”,  sono solo tre indizi che testimoniano, nell'uso linguistico comune, l'importanza di avere una faccia “a posto”. E chi non la ha è (vorremmo dire: era) esposto allo stigma sociale. I volti discosti dalla norma e le deformità del viso, più o meno marcate, si portano appresso un immaginario antico e perdurante che ricaccia non solo chi ha il volto preteso per imperfetto, ma anche chi guarda quel volto, in una zona d'ombra; un'ombra pericolosamente scivolosa, appunto, verso lo stigma più becero: quello che associa imperfezione del corpo con imperfezione dell'anima. Di certo, l'elaborazione personale e il confronto con il contesto sociale divengono costanti di chi porta sul volto segni particolari, per nascita o accidente. La letteratura ne ha fatto tema e spunto per molte narrazioni, anche nelle recenti proposte per adolescenti e giovani adulti. Oltre a Alicia faccia di mostro di Brunialti, recensito sul numero scorso e oggetto dell'intervista di Rossella Caso qui a fianco, potremmo ricordare la fortunata serie Wonder della scrittrice R.J. Palacio, il cui primo e omonimo romanzo è stato incluso nella terna dei finalisti del Premio Andersen 2014 per la categoria libri per ragazzi oltre i 12 anni, o ancora il recente Brucio (2016) di Christian Frascella, recensito su questo stesso numero da Guido Affini. Come detto il tema, variamente declinato, non è nuovo in letteratura; si potrà tornare almeno alla storia di Gwynplaine, protagonista de L'uomo che ride (1869) di Victor Hugo; a quella di Mascarita, personaggio de Il narratore ambulante (1987) di Mario Vargas Llosa; o,  per certi versi, a quella del capitano Fausto de Il buio e il miele (1969) di Giovanni Arpino.


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dove l'ho scritto, la fonte: questo intervento è uscito sul numero corrente della rivista "Andersen", n. 340, marzo 2017

l'immagine: un fotogramma dal film L'uomo che ride (The Man Who Laughs, 1928) di Paul Leni dall'omonimo romanzo di Victor Hugo (1869)

tracce: oltre ai libri indicati si potrà andare - almeno per Hugo e Arpino - a cercare le diverse trasposizioni cinematografiche, alcune che traggono solo suggestione dal tema; così come si potrà andare a cercare suggestioni e collegamenti in altre forme espressive o guardarne la ricaduta nell'immaginario e nelle produzioni culturali (pare che il Joker di Batman debba molto, certo nella resa visiva, all'interpretazione di Conrad Veidt nel film del 1928).