giovedì 27 novembre 2014

Il grande libro dei mestieri



Nei giorni scorsi è uscito Il grande libro dei mestieri (EDT - Giralangolo, collana "Sottosopra", 2014; edizione originale: Le grand imaginier des métiers, editions Gautier Languereau, 2012), testo e illustrazioni di Eric Puybaret. Un repertorio immaginifico eppure concretissimo di lavori da sognare e da perseguire (beninteso: nel significato di "impegnarsi con tenacia per raggiungere...") fin dall'infanzia. Grandissimo formato, vivaci e oniriche illustrazioni. Non mi dilungo e non lo analizzo, ché sono parte in causa avendone fatto la traduzione. Un volume al quale sono legato, quindi. E non solo per averne curato il testo italiano. Lavorare alla traduzione di questo albo illustrato mi ha consentito, infatti, di tornare a soffermarmi non soltanto su questioni dell'amata lingua francese e di riflettere sugli usi della lingua (in questo caso italiana) intorno ai generi, ma anche di confrontarmi con temi a me cari come l'identità, il contrasto degli stereotipi, il lavoro. E, non da ultimo, di ripescare un libro prezioso; ne dirò tra poco, prima divagherò in disordinato ordine.

Lingua francese: l'idioma dei cugini transalpini ha molte peculiarità, come ogni lingua, e diverse parole efficaci solo se dette come oltre Roia e Alpi. Una di queste è cruccio, croce, delizia e rovello di chi si occupi di illustrazione, cultura dell'immagine e pure di libri per l'infanzia: imaginier. Gli addetti ai lavori, nei discorsi tra addetti ai lavori, mantengono la parola francese. Gli altri si arrangiano. Del resto i dizionari francese-italiano lo tacciono. Non va troppo meglio con quelli francesi generalisti, anche enciclopedici. Almeno con il significato, la definizione è mia e per l'occasione, di "libro illustrato che presenta un repertorio di immagini coerente". Già, questo è grossomodo il senso di imaginier. In realtà, se la coerenza è data da classi e insiemi sufficientemente bazzicati nella storia editoriale (alfabeto, mostri e creature fantastiche, erbe officinali...), la resa in italiano è possibile e consolidata, benché frammentaria (alfabetiere o abbecedario, bestiario, erbario...). Altrimenti bisogna trovare soluzioni soddisfacenti per escluderla dall'orizzonte, preservandone senso. Eviterei, salvo rari casi e almeno negli illustrati per piccoli, l'algido /repertorio d'immagini/ così come prove avventurose (l'utilizzo di /immaginario/ con slittamento di senso fa inutile confusione) o neologismi costruiti su calco (insomma mi risparmierei, faccio esempio sul caso nostro, il cacofonico /mestierario/). Torno al lemma: l'unico significato attestato in francese, oltre al nostro (peraltro non supportato da fonti se non quelle del consolidato uso nell'editoria ragazzi francofona), lo trovo nel corpus lessicografico offerto dal Centre National de Ressources Textuelles et Lexicales (cnrtl.fr) per il moyen français (1330-1500). Ha tutt'altro valore: indica i realizzatori di immagini dipinte o scolpite, insomma gli artisti ma pure gli artigiani. Ma questa è un'altra storia.

Lingua italiana, generi, identità, stereotipi: il libro di Puybaret in Italia è ospitato nella collana "Sottosopra" di EDT-Giralangolo. Una collana, diretta da Irene Biemmi, che, copio dal sito dell'editore, "è stata ideata con un preciso obiettivo: promuovere un immaginario alternativo attraverso libri illustrati espressamente orientati al principio dell’identità di genere e all’interscambiabilità dei ruoli maschili e femminili. I protagonisti di questi libri sono bambine e bambini, donne e uomini, liberi di agire, pensare e comportarsi senza vincoli legati al proprio sesso biologico di appartenenza". La lingua, la scelta delle parole e la loro declinazione, è - in ordine alle questioni esposte - importante quasi quanto le storie. E non dovrebbe esserlo solo per questa collana. Non entro nel merito e nel dettaglio della riflessione, annosa e ampiamente dibattuta, dell'uso di femminili e maschili per ruoli e professioni (sindaco? sindaca? il palesemente scorretto sindachessa?). Ho tutt'ora incertezze. Per mia fortuna il lavoro sulla resa in italiano, al femminile e al maschile, dei mestieri descritti da Puybaret è stato facile, perché preordinato e vigilato dalla consulenza di Irene Biemmi, la specialista. Più difficile - e divertente - rendere, pure nella misura brevissima dei testi (o forse proprio per questa), la molteplicità nella costruzione delle frasi che contrappuntano le immagini. Al di là della questione dei generi (grammaticali) il lavoro di traduzione su questo testo ha consolidato una mia convinzione, espressa più volte sia in sede critica che autoriale: la scelta della lingua e delle parole sono un atto politico responsabile. Pure per contrastare stereotipi. Sono in abbondante e buona compagnia. Lo dice, facendoci ridere e divenendo proverbiale, anche Nanni Moretti in Palombella Rossa (1989): "le parole sono importanti".

Lavoro: quanto è difficile parlarne nei libri. Eppure semplice. Per le bambine e i bambini, per le ragazze e i ragazzi, il lavoro non è solo, non può essere solo, la risposta al quesito adulto "cosa farai da grande?"; domanda che attende troppo spesso solo una risposta legata alle dimensioni del desiderio e del sogno, senza legarsi invece, come urge pure all'età evolutiva, anche alle dimensioni dell'impegno, della soddisfazione, del diritto, della fatica e del bisogno. Non ripeterò quanto già detto al proposito in occasione dell'uscita del mio Al lavoro! (illustrazione di Sara Ninfali; Coccole Books, 2012). E forse, pure con registri diversissimi, non è un caso che questi due libri possano unirsi con un immaginario filo rosso ben prestandosi a riflessioni negli incontri con lettrici e lettori; a farmelo notare è stata un'amica francese: Elisabeth Lesquoy, "ancienne professeur" d'italiano e attenta osservatrice dei libri italiani per ragazzi (suo il blog Lecturesitaliennes). 



Libro prezioso: alla fine tutte le parole fin qui dette sono solo un pretesto per raccontarvi di Vendo l'argento do mâ [Vendo l'argento del mare]. Venditori ambulanti, gridi e voci di Genova (Sagep, 1971) di Ivana Ferrando, prefazione di Beatrice Solinas Donghi e illustrazioni di Attilio Mangini. Tante sono le suggestioni che toccherà andare con ordine. Innanzitutto com'è che mi è tornato in mano mentre lavoravo al libro di Puybaret. In una delle aperture del volume dell'illustratore francese entra in scena una venditrice (o venditore, certo) di primizie con tanto di megafono per decantare la qualità della sua proposta: "Venez venez dans mon bazar, il y a forcement un trésor pour vous". Ed ecco che arriva il libro di Ivana Ferrando. Per trovare il giusto tono del venditore in strada ho dovuto fare occhio e orecchio ai gridi (sì, gridi al maschile, lo usa il libro in questione; e vale, almeno per gli animali, i soldati e i venditori >>>) della tradizione. Così ho tirato giù dallo scaffale e riletto e riletto con il gusto di una prima volta Vendo l'argento do mâ. Le voci degli ambulanti sono qui prevalentemente, se non esclusivamente, in genovese e in ligure; fin da quella scelta per titolo, dove "l'argento del mare" altro non è, sono, che le acciughe. Cercavo ritmo, semplicità e forza, popolare e evocativa, e lì l'ho trovata. Il libro oltre a inanellare una collezione di gridi e voci li analizza e contestualizza, riferendosi ora alla cronaca ora alla storia ora alla letteratura di Liguria. Un libro prezioso dentro a una collana preziosa ("Scaffaletto genovese", diretta da Nelio Ferrando), rivoluzionaria allora per la capacità di collegare la tradizione più antica e schiettamente popolare con il respiro ampio della riflessione colta, della dimensione culturale a tutto tondo. Non a caso Beatrice Solinas Donghi in questa stessa collana pubblicò due saggi repertorio imprescindibili, non solo per lo studioso locale o l'amante di cose ligustiche, come A rionda di cuculli, filastrocche genovesi e liguri (1968) e Fiabe a Genova (1972); il primo dei quali più volte riproposto con giusta fortuna. Altro nome legato alla collana è quello di Attilio Mangini (1912-2004), autore delle illustrazioni di diversi volumi della serie; compresi questo della Ferrando e l'appena citato A rionda di cucculli di Solinas Donghi. Il nome di Mangini chiude un altro cerchio. L'artista, fu ceramista e pittore apprezzato, iniziò la propria carriera nel 1946, appena rientrato alla vita civile dopo aver aderito alla Resistenza. I suoi esordi, una Biennale di Venezia nel 1950 e una personale a Genova nel 1952, sono contraddistinti da "opere a chiaro sfondo sociale" (Chiara Caporilli, >>>), varrà allora la pena guardare questo L'ultimo morto dei cantieri maledetti (1952, tempera su carta, cm 74x105,5). Giusto per chiudere il cerchio, con il lavoro e i diritti.



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