mercoledì 13 novembre 2013

Le contraddizioni, forse inconsapevoli ma per certo nocive


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Lo vado ripetendo da un po’. Sempre più ritengo che parte – minima magari o forse no - della crisi dell’editoria italiana, dell’insostenibilità economica del fare cultura e informazione, dell’inefficacia della promozione della lettura e dei saperi, e finanche del disorientamento etico e politico di quella porzione di società che ha cura di libri e età evolutiva, abbia  a che fare non solo, e non soltanto, con la crisi globale o con le ragioni analizzabili di contesto. No, non solo. Parte di questa responsabilità sta nella confusione di molti adulti (amateur e professionisti) intorno a questi temi e questi tempi. Serve un po’ di studio e consapevolezza. Di certo – saltate le categorie note – ci vuole un po’ di riposizionamento etico, un’assunzione di responsabilità. Un minimo di coerenza. Sempre ammesso che si voglia insistere su alcune questioni sbandierate di continuo. Già. Ecco a me viene da sbottare – ancor prima che provare a ragionare – quando continuo a sentire attribuzioni di valore a cose come: qualità delle proposte, sostenibilità delle filiere territoriali e etiche (tipografie, carte, certificazioni), importanza della rete di librerie indipendenti (posti lavoro e competenze), importanza delle biblioteche pubbliche (civiche e scolastiche), valore della media e piccola editoria indipendente (e in generale dell’imprenditoria indipendente della filiera), valore delle riviste indipendenti, diritti dei lavoratori della stampa tipografica, della cultura e dell’informazione, diritti d’autore, impatto ambientale (ancora carte e certificazioni, ma anche lavoro e trasporti), e – non ultima (anzi, dovrebbe essere summa e fine) – capacità di educare e educarsi a scelte critiche e autonome. Perché sbotto? Perché io tifo e credo in queste cose. E sembrerebbe di essere in ottima compagnia, almeno a girare per l’Italia. Poi però scovi quelle stesse persone immerse in filiere di un mondo al contrario (rispetto almeno al senso e alle dichiarazioni di senso appena esposte). Una filiera che funziona più o meno così: one-man-band nascosti dietro a pavidi disclaimer (“… in ottemperanza alla legge n.62 del 7/3/2001… bla… bla…) e zuccherosi ammiccamenti contenutistici (sempre più strutturati con “rubriche” e “collaboratori”, giocando a fare i giornali, intanto pure quelli ormai non pagano) linkano, dietro contentino percentuale, ai maggiori siti di e-commerce per farti comprare scontato, come altrove non troveresti, il tal libro stampato dall’altra parte del mondo, abbattendo foreste e diritti, e che dall’altra parte del mondo arriva attraversando oceani su navi da oltre 10000 TEU (e conseguente gasolio). Per carità la progettazione è italiana, affidata a editor precari visto che la filiera non si regge. Et voilà in un sol colpo via tipografi, librai, bibliotecari, editori coraggiosi, editor, autori, critici, alberi e pesci. Ecco io sbotto se anche solo un pezzo di questa filiera al contrario è composto da chi poi vanta l’utilizzo di cibi bio a km 0, capi di vestiario in fibre naturali del commercio equo e l’uso della bici per il trasporto urbano. Basta intendersi. Non sto parlando di chi in modo genuino punta sulla modernità convinto dell’opportunità di saltare passaggi ovvero del mondo delle autoproduzioni per capirci (che è peraltro diverso da quello del selfpublishing, le parole sono importanti e contengono semantica politica). Quelli hanno tutta la mia stima. No, parlo dei confusi, forse inconsapevoli, ma per certo nocivi

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